La Corte d’Appello di Venezia si uniforma all’orientamento della Cassazione 24069/2019

La Corte d’Appello di Venezia in una controversia seguita dagli avv. Andrea Zanioli e Anna Rita Freda aderisce all’orientamento della Cassazione secondo la quale nel giudizio di opposizione avverso decreto ingiuntivo avviato con la veste introduttiva dell’atto di citazione in luogo del ricorso, ai fini della tempestività della stessa, occorre guardare al rito concretamente attivato in ossequio ai principi di cui all’art. 4 D.Lgs. 150/2011 secondo quanto evidenziato dalla Corte di Cassazione nella sentenza 24069/2019.

Cashback e fidelizzazione del consumatore: per un inquadramento dogmatico e teorico

La più promettente frontiera della fidelizzazione del consumatore, sia on line che off line nel commercio di prossimità, è probabilmente il cashback, ovverosia la restituzione in denaro di una percentuale/quota sul volume d’affari acquistato presso un circuito, una catena o un canale d’acquisto. Particolarmente promettente, si diceva, perché consente di indurre il consumatore a integrare le proprie attività di acquisto elettronico con quelle tradizionali.

Al fine di inquadrare la fattispecie vi è da dire che l’ottica del fenomeno è quella di considerare il volume di spese generato dal consumatore nel suo paniere complessivo, indipendentemente dal contratto stipulato di volta in volta: se è vero che la compravendita è sicuramente la regina, ai fini del cashback possono valere anche altri contratti come l’assicurazione per l’auto, i canoni di un leasing o pacchetti turistici per le vacanze. Questo dato di partenza è centrale per analizzare giuridicamente la fattispecie, difatti va categoricamente esclusa la nozione di ‘sconto’ (quindi, giuridicamente, di riduzione del prezzo quale corrispettivo del negozio traslativo posto in essere dalle parti) poiché il cashback non incide sul contratto intercorso tra le parti ma si situa a valle dello stesso, in un momento futuro e incerto (quando il consumatore avrà raggiunto le soglie minime per la corresponsione) e in dipendenza da altri e ulteriori contratti stipulati con soggetti terzi.

Trattandosi di società orientate al profitto, deve essere esclusa l’applicabilità dell’istituto del ristorno mutualistico di cui all’art. 2545bis C.C., che in linea di principio al cashback sarebbe assimilabile e maggiormente affine. Potrebbe invece essere verosimilmente evocabile il ristorno se ci si collocasse all’interno di un gruppo cooperativo paritetico o di una rete di imprese a vocazione sociale non orientate al profitto.

Senza limitarsi a un richiamo generico all’art. 1322 C.C. in materia di autonomia negoziale e meritevolezza di tutela, l’unico istituto a qualche titolo evocabile è quello della donazione remuneratoria di cui all’art. 770 C.C.. Nell’istituto appena richiamato il tratto della liberalità proprio della donazione sia, nella sostanza, recessivo residuando solo il nocciolo primigenio dell’istituto donativo, cioè la spontaneità (nullo iure cogente), difatti al secondo comma, la legge si incarica di esplicitare che persino la conformità agli usi, fonte di rango più basso (art. 1 preleggi), è idonea a escludere la donazione, proprio sull’assunto che l’agente operi nella convinzione di adempiere a un dovere in qualche modo giuridico o percepito come tale nella comunità di riferimento. Se è dunque vero che qui ci troviamo di fronte a un contratto con reciproci diritti e obblighi, spesso stipulato in via adesiva con il soggetto che promette il cashback, che può dunque rientrare a pieno titolo nel dipanarsi dell’autonomia negoziale degli operatori, vi è però da guardare alla sproporzione spesso evidente fra la somma rimborsata all’acquirente del servizio e quella dallo stesso corrisposta per il suo acquisto (la somma restituita può arrivare nella più ottimistica delle ipotesi al 10%, ma nella stragrande maggioranza dei casi non supera il 2-4%), a tal proposito si potrebbe ricuperare la previsione dell’art. 770 C.C. laddove parla di servizi resi: in un’ottica di interpretazione evolutiva del sistema, proprio la globalità dell’ottica considerata dalle operazioni di cashback potrebbe essere utilmente sussunta nella previsione normativa, rientrando quindi l’operazione economica nelle piccole dazioni monetarie della vita comune.

Sul piano ricostruttivo, quindi, appare più fondato parlare di una fattispecie complessa a formazione progressiva costituita da un contratto tipico e una liberalità d’uso giuridicamente meritevole di tutela in un quadro di autonomia contrattuale.

Avv. Anna Rita Freda

Avv. Alberto Leoncini

L’avv. Freda a ViralOctopus Bootcamp

Riportiamo di seguito l’intervista all’avv. Anna Rita Freda in materia di adeguamento al regolamento GDPR, da pochi giorni in vigore rilasciata a ViralOctopus bootcamp

GDPR: informazioni utili con l'Avv Anna Rita Freda.Scopri come gestire l'adeguamento a questa norma nel modo corretto con l'aiuto e i consigli di chi se ne occupa ogni giorno!

Pubblicato da Viral Octopus su Mercoledì 23 maggio 2018

Data mining e GDPR: il valore dei dati per l’impresa

L’Avv. Freda è stata invitata al Master in GIURISTA INTERNAZIONALE DI IMPRESA, Università degli Studi di Padova, sede di Treviso, per un intervento in materia di “Data mining e GDPR: il valore dei dati per l’impresa”. Si pubblicano le slide condivise

Viaggio semiserio tra la burocrazia e la società in trasformazione: incontro con Italo Franco

Il giorno martedì 9 gennaio 2018 alle ore 18,00 presso la libreria San Leonardo (Piazza Santa Maria dei Battuti 16, Treviso) verrà presentato il testo ‘Viaggio semiserio tra la burocrazia e la società in trasformazione, Da Kafka in salsa italiana alla società disorientata’ (Cleup, Padova) del giudice Italo Franco, dialogheranno con l’autore l’avv. Anna Rita Freda e Alberto Leoncini. Porterà il saluto dell’amministrazione civica, che patrocina l’evento, l’assessore Luciano Franchin. Seguirà dibattito.

Il testo costituisce la sintesi e il punto di arrivo di una lunga esperienza da operatore della giustizia, che ha impegnato per molti anni il giudice Franco presso il TAR del Veneto, consentendogli di analizzare e sedimentare le evoluzioni dei più cruciali temi per la cittadinanza: il rapporto fra cittadino e perimetro pubblico, evoluzione dei pubblici poteri nella globalizzazione, diritti fondamentali e modello economico. Un testo che affronta con chiarezza espositiva e linearità i più urgenti snodi del dibattito sociale e giuridico contemporaneo, vagliandoli con sguardo critico e acume prospettico coniugando un’ottima accessibilità anche per un pubblico generalista.

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Condividiamo alcune immagini dell’incontro con il giudice Italo Franco del 9 gennaio 2018  qui con il dott. Alberto Leoncini e l’assessore alla cultura del Comune di Treviso Luciano Franchin.

Le foto sono gentilmente concesse dall’autrice, MariaEster Nichele.

assessore Franchin, giudice Italo Franco e dott. Alberto Leoncini
assessore Franchin, giudice Italo Franco e dott. Alberto Leoncin
dott. Alberto Leoncini, giudice Italo Franco e assessore Franchin

Parto anonimo e diritto del figlio di conoscere le proprie origini

La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 278 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7 della legge n. 184/1983 Diritto del minore ad una famiglia[1], nella parte in cui non prevede la possibilità per il giudice di sentire, su richiesta del figlio, la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata ai sensi dell’art. 30 D.p.r. n. 396/2000, ai fini di un’eventuale revoca di tale dichiarazione.

La Consulta ha riconosciuto così il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini ed ha appuntato rilievi sull’irreversibilità del segreto, demandando al legislatore nazionale l’individuazione di modalità di accertamento della perdurante attualità della scelta della madre.

La pronuncia è stata sollecitata da una decisione della Corte Europea dei diritti dell’uomo (caso Godelli c. Italia sentenza 25.9.2012). La Corte EDU ha ascritto il diritto di conoscere la propria origine biologica nell’ambito di applicazione dell’art. 8 CEDU sul rispetto alla vita privata e familiare e, dunque, ha riconosciuto l’essenzialità dell’informazione per lo sviluppo della vita privata e dell’identità personale.

La Corte EDU ha ravvisato la violazione della vita privata nell’assenza di forme di bilanciamento tra il diritto della madre all’anonimato perpetuo, escludente qualsiasi rilevanza giuridica all’istanza dell’adottato volta alla reversibilità del segreto, ed il diritto del figlio di conoscere le proprie origini.

In attesa dell’intervento legislativo, alcuni Tribunali hanno dato immediata attuazione alla decisione della Corte costituzionale, delegando il Giudice a verificare l’attuale volontà della madre biologica. Altri invece, stante l’assenza di una legge che ne disciplinasse le modalità, non hanno consentito di compiere ricerche e interpellare la madre che aveva deciso di partorire nell’anonimato e di dare in adozione il proprio figlio.

Le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, con sentenza 25 gennaio 2017, n. 1946, ritenendo che la sentenza del 2013, con la quale è stata dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 28 della legge sull’adozione contemplasse la possibilità d’interpello della madre da parte del giudice su richiesta del figlio, hanno statuito che il giudice non può negare al figlio l’accesso alle informazioni sulle sue origini per il solo fatto che la madre naturale aveva dichiarato al momento del parto di voler rimanere anonima, senza avere precedentemente verificato in maniera rispettosa e discreta la volontà della donna di mantenere ancora l’anonimato e dunque di non voler revocare la propria precedente e lontana nel tempo dichiarazione.

Sostanzialmente, esisterebbe nell’ordinamento questo principio che fissa un punto di equilibrio tra la posizione del figlio adottato e i diritti della madre, che deve essere applicato dagli organi giurisdizionali in attesa che il legislatore intervenga[2].

In tema di parto anonimo, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 278 del 2013, ancorché il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa, sussiste la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione, e ciò con modalità procedimentali, tratte dal quadro normativo e dal principio somministrato dalla Corte costituzionale, idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna; fermo restando che il diritto del figlio trova un limite insuperabile allorché la dichiarazione iniziale per l’anonimato non sia rimossa in seguito all’interpello e persista il diniego della madre di svelare la propria identità[3].

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La disciplina del cd. parto in anonimato si interseca con quella del diritto di accesso agli atti e con il D.Lgs. 196/2003 Codice per la protezione dei dati personali.

L’art. 30 d.P.R. 396/2000[4] attribuisce rilevanza giuridica alla volontà della donna che ha partorito di non essere nominata nella dichiarazione di nascita.

Tale rilevanza si esplica in una serie di effetti che trovano fonte in diverse disposizioni, tra questi vi è il divieto di accesso alle informazioni relative alla madre di cui all’art. 28 co. 7 L. 184/1983, riscritto dall’art. 177 co. 2 del Codice per la protezione dei dati personali, inquadrando, a parere di scrive erroneamente e semplicisticamente, la questione della conoscenza delle origini nel sistema complessivo del trattamento dei dati personali e quindi nell’ambito della comunicazione all’interessato dei dati sensibili propri e di terzi.

In questo contesto, però, secondo i critici, a venire in considerazione non sarebbe un diritto alla mera riservatezza preso in considerazione dalle norme del Codice della protezione dei dati personali, ma l’effetto legale, come sostenuto anche dalla Prof.ssa Elisa de Belvis in un suo recente contributo[5]scaturente dalla manifestazione di volontà in ordine all’anonimato, posto a tutela proprio della situazione giuridica soggettiva presidiata dall’istituto del cd. parto anonimo. Quindi, si dovrebbero applicare le regole dell’art. 93 co. 2 e 3 D.Lgs. 196/2003[6].

Il diritto alla conoscenza delle proprie origini biologiche è un diritto fondamentale della persona che rientra nel diritto all’identità personale. Esso si contrappone al diritto della madre che non possa o non voglia tenere presso di sé il proprio neonato. Tale ultimo diritto, non va dimenticato, è posto dall’ordinamento a salvaguardia sia della vita del bambino, fornendo una valida alternativa a soluzioni diverse come l’interruzione volontaria della gravidanzasia della salute propria della madre e del bambino intesa quale vita fisicamente sana attraverso l’accesso a strutture sanitarie adeguate che consentano di partorire in un contesto protettosia della vita del bambino sotto l’aspetto di esistenza psichicamente sana considerato che tra gli effetti normativi della dichiarazione materna vi è il tempestivo inserimento del nato in un ambiente affettivamente idoneo tramite l’adozione[7].

[1] 28. 1. Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni.

  1. Qualunque attestazione di stato civile riferita all’adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del minore e dell’annotazione di cui all’articolo 26, comma 4.
  2. L’ufficiale di stato civile, l’ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell’autorità giudiziaria. Non è necessaria l’autorizzazione qualora la richiesta provenga dall’ufficiale di stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali.
  3. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali esercenti la potestà dei genitori, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
  4. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza.
  5. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste.
  6. L’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato, o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo.
  7. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili.

[2] G. Vassallo, Parto anonimo: nell’attesa della legge, il diritto del figlio di conoscere le proprie origini va garantito, commento a Cassazione Civile, SS.UU., sentenza 25/01/2017 n° 1946, 13.02.2017, www.altalex.com

[3] Principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite nella sentenza n.1946/2017.

[4] 30. Dichiarazione di nascita.

  1. La dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata.
  2. Ai fini della formazione dell’atto di nascita, la dichiarazione resa all’ufficiale dello stato civile è

corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera, nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino.

  1. Se la puerpera non è stata assistita da personale sanitario, il dichiarante che non è neppure in grado di esibire l’attestazione di constatazione di avvenuto parto, produce una dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell’articolo 2 della legge 4 gennaio 1968, n. 15.
  2. La dichiarazione può essere resa, entro dieci giorni dalla nascita, presso il comune nel cui territorio è avvenuto il parto o in alternativa, entro tre giorni, presso la direzione sanitaria dell’ospedale o della casa di cura in cui è avvenuta la nascita. In tale ultimo caso la dichiarazione può contenere anche il riconoscimento contestuale di figlio naturale e, unitamente all’attestazione di nascita, è trasmessa, ai fini della trascrizione, dal direttore sanitario all’ufficiale dello stato civile del comune nel cui territorio è situato il centro di nascita o, su richiesta dei genitori, al comune di residenza individuato ai sensi del comma 7, nei dieci giorni successivi, anche attraverso la utilizzazione di sistemi di comunicazione telematici tali da garantire l’autenticità̀ della documentazione inviata secondo la normativa in vigore.
  3. La dichiarazione non può essere ricevuta dal direttore sanitario se il bambino è nato morto ovvero se è morto prima che è stata resa la dichiarazione stessa. In tal caso la dichiarazione deve essere resa esclusivamente all’ufficiale dello stato civile del comune dove è avvenuta la nascita.
  4. Ai fini dell’applicazione delle disposizioni del presente articolo, gli uffici dello stato civile, nei loro rapporti con le direzioni sanitarie dei centri di nascita presenti sul proprio territorio, si attengono alle modalità̀ di coordinamento e di collegamento previste dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri di cui all’articolo 10, comma 2.
  5. I genitori, o uno di essi, se non intendono avvalersi di quanto previsto dal comma 4, hanno facoltà di dichiarare, entro dieci giorni dal parto, la nascita nel proprio comune di residenza. Nel caso in cui i genitori non risiedano nello stesso comune, salvo diverso accordo tra di loro, la dichiarazione di nascita è resa nel comune di residenza della madre. In tali casi, ove il dichiarante non esibisca l’attestazione della avvenuta nascita, il comune nel quale la dichiarazione è resa deve

procurarsela presso il centro di nascita dove il parto è avvenuto, salvo quanto previsto al comma 3.

  1. L’ufficiale dello stato civile che registra la nascita nel comune di residenza dei genitori o della madre deve comunicare al comune di nascita il nominativo del nato e gli estremi dell’atto ricevuto.

[5] E. de Belvis, Il diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini biologiche, in Famiglia e diritto 10/2017, p. 935 ss.

[6] Art. 93. Certificato di assistenza al parto

  1. Ai fini della dichiarazione di nascita il certificato di assistenza al parto è sempre sostituito da una semplice attestazione contenente i soli dati richiesti nei registri di nascita. Si osservano, altresì, le disposizioni dell’articolo 109.
  2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento.
  3. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile.

[7] Il corsivo serve a mettere in evidenza l’utilizzo letterale dei contenuti dell’approfondito lavoro della Prof.ssa de Belvis, già cit. in nota. 3, p. 938-939.